di Enzo Trentin 

Ogni crisi, per quanto difficile, ivi compresa quella economico-sanitaria di queste ore, è stata un’opportunità di apprendimento. La comunicazione, si sa, può essere uno strumento per chiarire all’opinione pubblica fatti e circostanze di tutti i tipi che accadono ogni giorno, oppure per confonderla. Dipende dal tipo di linguaggio che si usa, se cioè è chiaro e limpido, oppure contorto ed ermetico. Insomma, dipende dalla volontà e dalla capacità di chi comunica farsi capire, oppure di tendere a confondere chi ascolta.

C’è una leadership ispirata alla vecchia scuola partitocratica che nella costruzione del consenso non si basa su prove, risoluzione dei problemi, sull’importanza dell’abilità, della professionalità e delle soluzioni basate sulla scienza, preferendo, invece, propinare quotidianamente tesi di propaganda. 

Sul federalismo si è, nel tempo, sproloquiato in abbondanza: federalismo fiscale, federalismo demaniale, culturale e chi più ne ha più ne metta. Da quando la prima Liga veneta intorno agli anni 1980 ripropose la questione federalista, puoi assurta a linguaggio comune dalla Lega Nord, se ne sono sentite di tutti i colori; per questo motivo cercheremo di offrire qualche cenno storico di come il vero federalismo abbia inciso sul comportamento del cosiddetto “uomo qualunque”.

Napoleone Bonaparte per Tolstoj era “il gran ladrone d’Europa”. A cominciare dal colpo di stato con il quale aveva rubato il potere. Con il trattato di alleanza del 19 agosto 1798, le relazioni estere della Svizzera furono rimesse al governo francese. Con una capriola semantica la Repubblica Elvetica era così divenuta una patria alla francese donata agli svizzeri dal “Piccolo Corso”. Il “progressista” che esportava i princìpi della rivoluzione francese sulla punta delle baionette, non era certo un disinteressato idealista. 

In Svizzera fu un’invasione, quella francese, che finì col non piacere a molti di quegli stessi patrioti che l’avevano desiderata e provocata. Oltre al reclamato indennizzo per le spese della spedizione militare (15 milioni di franchi francesi divisi fra i cantoni resistenti) furono ricavati a Berna dai francesi 16 milioni di franchi e un ingente bottino (saccheggio dell’arsenale e lauta appropriazione di generi di prima necessità, fra i quali una enorme quantità di vino che i predetti posero in vendita traendone notevole incasso. Detto per inciso, è quanto stava succedendo in quello stesso periodo alla moribonda Repubblica di Venezia). Spoliazioni, carico formidabile di spesa (piccoli villaggi si trovarono a dover mantenere migliaia di soldati) completarono il quadro, sempre più sconfortante, della invasione.

Al ministro francese delle finanze, il commissario di guerra Rouhière, dopo aver riferito dell’ingente bottino conseguito nella Confederazione Helvetica, soggiungeva che l’intero esercito, cavalleria, fanteria, artiglieria, era stato riequipaggiato di bel nuovo, vestito e pagato, senza costare un soldo alla Repubblica” [francese] e che aveva “perfino i mezzi per mantenersi ancora per qualche tempo, sia grazie a quanto resta nelle casse, sia grazie ai contributi ancora da riscuotere”.

Se la Svizzera venne proclamata “una ed indivisibile” (tale espressione tuttavia non comparirà più nei testi successivi, nelle iniziali affermazioni di princìpio) si deve pur dire che il territorio svizzero era già stato e sarebbe stato ancora diviso (il Vallese divenne repubblica sorella nel 1802; Ginevra, Mulhouse, Bienne e la vallata del Giura divennero francesi; Neuchâtel rimase principato del re di Prussia; il Ticino dovette pronunziarsi contro l’annessione alla Repubblica Cisalpina (meglio “liberi e svizzeri!”) proposta da Parigi. E va altresì ricordato che, con il trattato di alleanza del 19 agosto 1798, le relazioni estere della Svizzera erano rimesse al governo francese.

La Costituzione del 20 maggio 1802, detta Seconda Costituzione Elvetica, fu la prima votata dal popolo: 92.423  e 167.172 No. I non votanti vennero considerati favorevoli secondo legge, e il testo fu dunque approvato; il popolo svizzero aveva tuttavia avuto modo di attestare implicitamente la propria sfiducia alla Repubblica Elvetica.

Malgrado ciò la lettera (del 30 settembre 1802) con la quale Napoleone annunziò l’Atto di mediazione ha toni di severa reprimenda. Questa, sia pure posta in forma d’una sorta di dichiarazione edittale, tradiva la delusione, la stizza. Gli svizzeri non erano stati a un gioco che egli aveva loro inutilmente tentato d’insegnare e che gli tornava comodo. La “Lettera di Bonaparte, Primo Console della Repubblica Francese, ai 18 Cantoni della Repubblica Elvetica” tacciava di cattivi scolari, fin dalle prime battute, gli “abitanti dell’Elvezia”, accusandoli di offrire, “già da due anni, uno spettacolo penoso”; e tacciava i partiti politici che li rappresentavano di “debolezza e imperizia” .

Napoleone segnalava poi che soltanto la sua “sensibilità” per le loro “sciagure” lo aveva costretto a trattenere l’esercito francese in territorio elvetico e ad intromettersi nei loro affari: “vi siete azzuffati per tre anni, senza intendervi; se foste ancora abbandonati a voi stessi, voi vi ammazzereste ancora per altri tre anni, senza meglio intendervi”, affermava il futuro imperatore. “La mia mediazione sarà efficace”, proseguiva decisamente il messaggio dopo aver richiamato con durezza certe ragioni storiche. “La vostra storia tutta sta a provare del resto che le vostre lotte interne non sono mai cessate se non con l’intervento decisivo della Francia”. Prometteva drammaticamente e con magnanimità: “la vostra patria è sull’orlo del precipizio, ma sarà salvata”; assicurando che l’annunziata mediazione era “per la Svizzera un benefizio della provvidenza”, di quella provvidenza che pur ”’fra tanti disastri,” aveva “sempre vegliato sull’esistenza e sulla indipendenza della nazione elvetica. 

Napoleone convocava pertanto a Parigi senatori, delegati dei Cantoni, landamani, autorità “per indicare i mezzi per ristabilire l’ordine, la tranquillità e per conciliare tutti i partiti”. Così sessantotto notabili svizzeri giunsero a Parigi, rispondendo all’invito di Napoleone, il quale tenne loro a Saint-Cloud, il 12 dicembre un discorso dal quale verrebbe fatto desumere che gli Svizzeri il futuro imperatore li aveva alfine capiti, tanto che, malauguratamente per lui, stava facendo marcia indietro.  “La Svizzera – disse loro – non assomiglia ad alcun altro Stato: per i fatti della sua storia, per la sua posizione geografica, per le sue diverse lingue e religioni e per l’estrema differenza di costumi che si rileva fra le sue diverse parti”. “La natura – egli dedusse – ha fatto il vostro Stato federalista, voler superare questo dato di fatto, non sarebbe cosa da uomo saggio. Per paesi diversi, diversi governi”. Insomma la Svizzera poteva non darsi peso del valore universale del modello costituzionale rivoluzionario; tutto ciò che si poteva fare… era averla “Stato neutrale, alleato della Francia” e poi, che si ritornasse pure al sistema dei Cantoni!

Per salvare la faccia, Napoleone redige un Atto di mediazione che consta di sei parti: un preambolo di Napoleone stesso come mediatore; 19 capitoli contenenti le Costituzioni di ognuno dei Cantoni; la Costituzione Federale; la legge contenente le norme transitorie; una legge sulla liquidazione del debiti elvetici. C’era poi una chiusa conclusiva nella quale si riconosceva “l’Elvezia come potenza indipendente” e se ne garantiva “la Costituzione Federale e quella di ogni Cantone, contro i nemici della sua tranquillità”; ci si riproponeva anche di salvaguardare lo spirito di “benevolenza che da molti secoli ha unito le due nazioni”, Francia e Svizzera. Le firme in calce sono: Bonaparte; il ministro degli esteri C.M. de. Talleyrand; il segretario di Stato, H.B. Maret; il ministro degli esteri della Repubblica Italiana, (sic) J. Marescalchi. Concludendo: per Napoleone gli svizzeri, malgrado li avesse spremuti economicamente come tutti gli altri europei che riuscì a irretire con le sue idee, trattati e “princìpi rivoluzionari”, non erano per lui dei cittadini “malleabili”; che andassero pure per la loro strada.

Alla luce di questa scarne note appare evidente che quando lo Stato italiano (o meglio i suoi politicanti) parla di federalismo, o non sa di cosa tratta o peggio è in mala fede. Se poi osserviamo che ci sono soggetti politici sedicenti indipendentisti che aspirano a un nuovo modello istituzionale senza specificarne le caratteristiche, si vede bene come la “cultura” federalista di molti politici sia assolutamente inadeguata.

Enzo Trentin

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