con l’assenso dell’Autore, riportiamo questo articolo di Enzo Trentin su VICENZAREPORT

Canton Jura e Veneto identiche soluzioni?

Vicenza – Prima di tutto occorre fare un’importante precisazione. Il sistema politico elvetico non è una democrazia diretta “pura”, in cui ci sono diritti popolari di referendum e di iniziativa. Nella Svizzera moderna, ossia nello Stato federale nato nel 1848, alla democrazia rappresentativa è stata affiancata quella diretta, che nel corso degli anni si è vieppiù sviluppata. 

Quattro decenni fa, migliaia di persone si radunarono nella Place de la Liberté di Delémont, capoluogo del Jura, per celebrare la nascita di questo nuovo Cantone, nel nord-ovest della Svizzera. «Cittadini», esclamò François Lachat, padre fondatore del Cantone, «Vittoria!». Dopo decenni di conflitti, negoziati, referendum, il Jura fu finalmente accettato come pari dagli altri 25 suoi “fratelli” e, il primo gennaio del 1979, si separò da Berna per diventare il più giovane Cantone della Confederazione svizzera.

Il conflitto era vecchio di secoli e la creazione del nuovo Cantone del Jura, illustra l’influenza della democrazia diretta sulla politica e lo Stato. La storia del movimento separatista nel Jura dimostra come nel litigio tra minoranze e maggioranze diverse politicamente e culturalmente non è necessario accedere alla violenza. C’è un modo democratico-diretto per affrontare tali problemi.

L’ultimo movimento di protesta del Jura prese vita a seguito della vicenda di Moeckli nel 1947. Georges Moeckli era un politico del Jura, la cui nomina a uno dei ministeri fu bloccata dal Parlamento bernese esclusivamente perché la sua lingua materna era francese. 

Nel settembre 1957, il Rassemblement Jurassiano (RJ) lanciò un’iniziativa cantonale per accertare che cosa la gente del Jura pensasse dell’idea di creare un Cantone separato. La proposta chiedeva: «lei Vuole dare al Jura lo status di Cantone sovrano della Confederazione?» L’iniziativa consentì ai separatisti di spostare la loro campagna sulla scena politica e la forza dei mass-media nel relazionare e commentare fece il resto. I separatisti e la loro piattaforma politica non potevano essere ignorate. I numerosi rapporti dei Media trattarono con molta attenzione il Movimento e giovarono all’opinione pubblica che si fece un’opinione sulla RJ e la sua esistenza. 

Già! – osserviamo noi – nulla a che vedere con il ridicolo referendum consultivo del 22 ottobre 2017 per l’autonomia del Veneto. Infatti sono passati ben due anni, e ammesso che l’autonomia venga ottenuta, non si sa ancora bene in cosa consisterà. Sicuramente non allenterà il gravame fiscale che ha fatto chiudere migliaia di aziende (i cosiddetti pagatori di tasse), suicidare centinaia di imprenditori, e emigrare centinaia di migliaia di giovani altamente istruiti e/o specializzati.

Infatti la questione Jura doveva essere riconosciuta “il movimento è forte e diffuso”, (la Neue Zürcher Zeitung, 15.7.1957). Quando l’iniziativa andò a referendum elettorale nel luglio 1959, esso fu approvato da una chiara maggioranza solo nelle tre aree francofone, e nei quartieri del Jura settentrionale, mentre i distretti del Jura meridionale a lingua tedesca rimasero fedeli a Berna. I titoli di giornale dichiararono la morte del separatismo: “il sogno di RJ è finito!” (Basler Nachrichten, 6.7.1959); “Separatismo condannato a morire” (Tagwacht, 6.7.1959). 

I separatisti cambiarono allora le loro tattiche e i relativi argomenti. In futuro, si sarebbero impegnati a parlare dell’unità, non dell’intera regione del Jura, ma solo delle più bistrattate aree rinunciando all’idea che la geografia e una storia condivisa costituissero la base della loro identità, abbandonando anche le sottolineature di origine etnica e quelle sulla lingua francese. 

In altri termini: i separatisti abbandonarono l’idea di “nazione” basata sulla lingua e sull’origine etnica e/o “Comunità naturale” che è in netto contrasto con l’idea della Svizzera nazione e comunità politica. La paura, espressa pubblicamente, era che il nazionalismo dei separatisti minasse l’idea della Svizzera quale nazione basata non su un’etnia o una lingua comune, ma sulla volontà degli svizzeri di unire nonostante le differenze (“Willensnation Schweiz“). I separatisti, d’altro canto, cercarono sostegno alla loro visione sia in patria che all’estero, alla ricerca-scoperta di una “Europa des patries“.

Le Mouvement Séparatiste Jurassiano (rinominato nel 1951: Rassemblement Jurassiano) rappresentava coloro che erano per la completa separazione da Berna. Quest’ultima pur respingendo le pretese, fece delle concessioni alle richieste di autonomia, incluso il riconoscimento costituzionale dell’identità separata del popolo del Jura, confermato nel referendum cantonale del 1950. In questa fase iniziale, il conflitto tra Berna e Jura fu percepito pubblicamente come un problema regionale, e i separatisti erano esclusi dai negoziati ufficiali essendo la separazione completamente inaccettabile a Berna. Ma, come detto più sopra, il 1° gennaio 1979, i jurassiani si separarono da Berna per diventare il più giovane Cantone della Confederazione svizzera.

I quattro decenni trascorsi non sono un tempo molto lungo, ma nel caso del Jura abbastanza per costruire un Cantone e un’amministrazione funzionanti, con tutto ciò che un simile lavoro comporta: un budget sostenibile, un sistema fiscale, funzionari, targhe per i veicoli, permessi, strade, relazioni estere.

Come fa una nuova regione a realizzare tutto questo?

Per rispondere a questa domanda intavoliamo una conversazione con Gedeone Nenzi, l’indipendentista veneto che diede vita ad una serie di pubbliche conferenze che, girando il territorio, si tenevano sotto l’egida di «Arengo Veneto». Una volta che gli obiettivi politici furono definiti – racconta Gedeone Nenzi – per dare vita al nuovo Cantone bisognava imprescindibilmente ottenere tre cose: funzionari, infrastrutture per permetter loro di lavorare e, soprattutto, i soldi. 

Doveva essere creato anche il sistema di riscossione delle imposte (il Jura aveva uno dei più pesanti regimi fiscali in Svizzera, per generare gli introiti necessari allo sviluppo del nuovo Cantone). Reperire il denaro è stato invece un po’ più complicato. Significava infatti ritornare, con il cappello in mano, a Berna, per ottenere una somma che rischiò di non materializzarsi: un prestito iniziale di 40 milioni di franchi fu inizialmente rifiutato dalla cancelleria federale.

Ma anche con questi soldi, si legge nel libro di Fabien Dunand, “François Lachat Bâtisseur d’État” – che era Ministro delle finanze e Presidente del primo governo jurassiano – chiudeva il registro contabile ogni venerdì sera con l’inquietante presagio di un’imminente bancarotta. Questo lo portò a adottare misure drastiche per i primi sei mesi. «Decretai che l’olio di gomito avrebbe sostituito l’olio da riscaldamento», scherzò (in parte) Lachat. «Chiesi che la temperatura nelle sale non fosse superiore ai 18 gradi. Due giorni dopo gli impiegati vennero al lavoro con sciarpa e guanti.» Chissà se l’odierno sindacalismo veneto-italiota sarebbe disposto a tanto? 

Già! E noi gli ricordiamo che ben cinque furono i movimenti di protesta del Jura che sono sorti tra il 1815 e la seconda guerra mondiale. Furono tutti di breve durata. Essi non furono in grado di mobilitare un sufficiente appoggio perché altri conflitti hanno avuto la precedenza. Nonostante ciò, ha fatto emerge una consapevolezza nella minoranza del Jura e un numero di associazioni si sono formate ed hanno favorito e trasmesso questa consapevolezza. Secondo i separatisti, il popolo del Jura stava vivendo la discriminazione per mezzo della loro dipendenza dal Cantone di Berna, pertanto la separazione era la soluzione. Dopo la II G.M. l’emarginazione economica della regione del Jura aveva aggiunto notevole credibilità a questa interpretazione. 

«È vero!» conferma Gedeone Nenzi «ma per i veneti la situazione è completamente rovesciata, considerando il fiume di denaro proveniente da un sistema fiscale persecutorio che da decenni scorre da questo territorio ad altri, senza peraltro ottenere alcun concreto vantaggio per i beneficiati. Al contrario, ogni anno con il sistema svizzero della perequazione finanziaria viene organizzato un “grande calderone” nel quale i Cantoni più ricchi versano denaro che poi è distribuito a quelli più poveri in modo da equilibrare conti e qualità delle infrastrutture in tutto il Paese. I “potenti” Zugo e Zurigo finiscono sempre per contribuire di più, mentre in fondo alla lista, immancabilmente, si trova il Jura come maggior beneficiario. Tuttavia, i cittadini svizzeri sono in qualsiasi momento in grado di modificare la legislazione e la Costituzione, cosa nemmeno immaginata nel paese di Arlecchino & Pulcinella.

Secondo quanto si legge in un contributo dello storico Christoph Koller per il quotidiano Le Temps, il Jura non sta affatto soffrendo di una crisi economica “di mezza età”: nonostante le difficoltà presentatesi nel corso degli anni, il suo settore manifatturiero (soprattutto orologi e componenti di macchinari) è rimasto forte, impiegando oltre il 40% dei lavoratori, mentre il settore terziario si è gonfiato – passando dal 32% dei posti di lavoro nel 1975 al 56% nel 2016. La disoccupazione è bassa, con un tasso del 4,6% e migliaia di lavoratori frontalieri vengono qui ogni giorno dalla Francia e dalla Germania.

A titolo di paragone, a livello nazionale il 21% dei lavoratori è attivo nel settore secondario o manifatturiero, mentre il 78% lavora nel terziario; il tasso di disoccupazione è di circa il 2%. Anche il livello di debito è relativamente basso nel Cantone, dichiarando che “il Jura è ora un Cantone quasi come gli altri” – il cauto “quasi” non si riferisce tanto all’economia, quanto alla politica, con il caso particolare del Comune di Moutier, che ha votato nel 2017 per lasciare il Cantone Berna e unirsi al Jura. Ma la situazione si è complicata: il voto è stato annullato e i cittadini saranno chiamati un’altra volta alle urne.

Per capire questo modus operandi si può leggere l’opera di Daniel J. Elazar – uno dei maggiori studiosi contemporanei del federalismo – in «Idee e forme del federalismo», pubblicato da Einaudi, collana Edizioni di Comunità, a pag. 91, scrive: «La sovranità, nelle repubbliche federali, viene inevitabilmente attribuita al popolo, che delega i propri poteri ai diversi governi, o che si accorda per esercitare direttamente quei poteri come se esso stesso fosse il governo (come accade nei Cantoni svizzeri tradizionali). Il popolo sovrano può delegare e dividere i poteri come meglio crede, ma la sovranità rimane sua proprietà inalienabile. Ne consegue che nell’esame dei governi federali il problema della sovranità non compare; si presenta solo la questione del potere. Nessun governo (o per estensione nessuna carica) può ritenersi “sovrano” e quindi credere di avere poteri illimitati, residuali o ultimi. […] Quindi il principio federale rappresenta un’alternativa (e un radicale attacco) alla moderna idea di sovranità.» 

Tuttavia, fatta questa utile citazione, c’è da osservare che esiste un indipendentismo veneto, oggi (in attesa di meglio) rimpannucciato da autonomismo, che chiederà il voto nel 2020 per essere eletto in Regione. E qui il primo aspetto che salta agli occhi è che a differenza del Jura dove grazie all’enorme entusiasmo civico: circa 4.000 candidature (in un cantone di 70.000 abitanti) furono presentate per i 450 impieghi disponibili. Orbene in un Veneto divenuto indipendente tutti i dipendenti pubblici italiani passeranno automaticamente al nuovo soggetto autodeterminato? Portando in dote la stessa mentalità burocratica? E con quali vantaggi?

Per il secondo aspetto, al Jura – quarant’anni fa – è stata necessaria un po’ di improvvisazione, almeno all’inizio. La nuova amministrazione si mise al lavoro in appartamenti e condomini, usando delle casse di legno come scrivanie. In un Veneto indipendente, le attuali sedi, arredi e strumenti della pubblica amministrazione italiana passeranno ipso facto a quest’ultimo? Lo stesso dicasi per le strutture demaniali? E per il personale della giustizia? E ancora, i giudici saranno gli stessi colleghi del contestato Luca Palamara e relativo “caso Palamara”? (“Quand’era al Csm prese 40mila euro da Amara per favorire una nomina”) 

Questi giudici su quali Codici civile e penale esplicheranno la loro opera; sul vigente “Codice Rocco” ancorché parzialmente rivisitato dallo Stato italiano? Le forze dell’ordine continueranno ad essere gli attuali Carabinieri, Poliziotti e Guardie carcerarie, con le loro strutture e dotazioni? Manterremo ancora la Guardia di Finanza armata per il controllo fiscale delle attività economiche? L’ufficio imposte avrà gli stessi compiti attuali? Le tasse saranno determinate dalla “rappresentanza” di una classe politica predatoria, o similmente alla Svizzera, alla California, al Liechtenstein potranno essere determinate dai cittadini attraverso gli strumenti di democrazia diretta? Non bastasse, in Oregon, come in Svizzera, il popolo è chiamato spesso a votare. In passato ci sono stati parecchi scambi tra cittadini dei due Stati in materia di democrazia diretta. 

Le riflessioni di Gedeone Nenzi assomigliano a quelle di molta parte di quell’indipendentismo veneto che sembra non aver ancora trovato i rappresentanti politici più idonei alle sue aspirazioni e necessità. In realtà, aggiunge, con l’opera appassionata e personalmente disinteressata di indipendentisti che reputo più competenti e sinceri, abbiamo tentato di dare risposte a questi quesiti. Ricordo bozze di Costituzione Veneta. Riunioni finalizzate ad un progetto politico-istituzionale ancora ai tempi del movimento Veneto Stato. Poi l’iniziativa di un Libro Bianco, e altre ancora che avevano come obiettivo disegnare l’assetto amministrativo di un futuro Veneto autodeterminatosi.

Adesso, dopo che troppi politicanti hanno “pasticciato” l’idea come faremo a portare avanti la pretesa indipendentista nei confronti dell’Italia centralista? Chi lo farà? I Veneti che si sentono italiani, e che lavorano pagati dall’amministrazione italiana? I politici veneti che si fanno eleggere nelle istituzioni italiane con la speranza di cambiarle da dentro? Una speranza da quasi quarant’anni ciclicamente delusa che era stata riposta in tante occasioni in diversi partiti, non ultimi la Lega (in tutte le sue salse) e il M5s? 

Nessuno di questi soggetti politici ha mai voluto comprendere che democrazia diretta e democrazia rappresentativa non sono antagoniste, bensì complementari. Nel sistema politico svizzero, i diritti popolari non sono mai stati concepiti come sostituti del processo parlamentare, bensì come strumenti del popolo per controllare costantemente l’operato dei propri rappresentanti ed eventualmente bloccarne le decisioni (referendum) o obbligarli a decidere (iniziativa). Inoltre, tra le leggi contro le quali è impugnato il referendum, rari sono i casi in cui il voto popolare sconfessa il parlamento. Io ho imparato dalle esperienze che per raggiungere un obiettivo ci vuole un “Sogno” e ci vuole un “Metodo”. Il Sogno ce l’abbiamo, è l’Indipendenza. Il metodo potrebbe essere quello del Jura.

Enzo Trentin

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